Il morbo di Alzheimer è una forma di demenza senile, non si presenta prima dei 45 anni di età ed è abbastanza rara fra i 45-65 anni; l’incidenza aumenta con l’avanzare dell’età.
E’ una sindrome complessa che si manifesta con una riduzione delle funzioni mentali come memoria, attenzione, concentrazione, pensiero, linguaggio.
La compromissione delle funzioni cognitive, all’inizio progredisce lentamente per poi diventare più rapida, fino a divenire tale da interferire con il funzionamento sociale e con le attività della vita quotidiana.
Questi sintomi sono spesso accompagnati da disturbi nella sfera della personalità, dell’affettività, dell’ideazione, della percezione e del comportamento.
I familiari sono la risorsa fondamentale di supporto delle persone con demenza, questo a seconda delle situazioni può dischiudere opportunità di intensa condivisione affettiva e/o portare ad un sostanziale logorio psicologico e pratico.
Che cosa si può fare?
Ogni persona è diversa e a maggior ragione ogni persona che si ammala è diversa. Anche condividendo certe caratteristiche di comportamento con altri ammalati, ognuno avrà un quadro di compromissione e difficoltà tutto suo.
Vale a dire che il modo in cui la persona con disturbi di memoria o di attenzione (ecc.) recepisce e reagisce in certe situazioni sarà unico.
Per comprenderlo si rende necessario avere un profilo neuropsicologico delle capacità cognitive funzionanti accanto a quelle compromesse, insieme alla storia di vita, ai ruoli rivestiti in passato da quella persona e alle relazioni passate, presenti e future.
Comprendere le specifiche limitazioni cognitive, ovvero il mondo di percezioni ed emozioni della persona con questa malattia, permette al familiare, che se ne prende cura, di porsi in un rapporto assistenziale che favorisca le capacità, rallentando il deterioramento e compensando le difficoltà.
A sua volta questo tipo di assistenza può migliorare la capacità di gestire i disturbi del comportamento, con un impatto sulla qualità della vita di tutti, il più a lungo possibile.
L’opportunità di intervenire con la stimolazione delle capacità cognitive residue (le capacità ancora presenti), in una fase iniziale o intermedia della malattia, quando tali capacità ancora presiedono un certo grado di autonomia, può contribuire al prolungamento di questa condizione.
L’esercizio, la stimolazione cognitiva ed una dieta controllata favoriscono l’espressione di un fattore neurotrofico (Brain-derived Neurotrophic Factor , o BDNF). Esso è coinvolto nella regolazione della plasticità neurale. Si tratta della capacità del cervello di modificare l’organizzazione cerebrale adattandosi alle necessità, attraverso le esperienze che la persona fa nel corso della sua vita, nel breve e nel lungo periodo.
Il BDNF è coinvolto anche nella neurogenesi, ovvero la formazione di nuove cellule neurali, e nella sopravvivenza di tali cellule nel cervello adulto.
La perdita precoce delle capacità non esercitate
Quando le disabilità impoveriscono le capacità di esplorazione ed osservazione dell’ambiente, limitando l’autonomia nelle attività quotidiane e nei rapporti sociali, le funzioni cognitive non ancora colpite dalla malattia sono spesso poco stimolate.
Questo può contribuire alla loro perdita precoce e ad un avanzamento più rapido del processo degenerativo.
Sottoporre, tuttavia, ad una persona un compito o un esercizio che non è più in grado di fare può generare frustrazione, depressione e rifiuto, provocando o acuendo i cosiddetti disturbi del comportamento: rispettare i limiti cognitivi significa tenere conto della disabilità della persona ed operare sollecitando in modo indiretto le capacità cognitive residue.
Utilizzando, perciò, esercizi che si adattino per genere e difficoltà alle soggettive capacità cognitive residue della persona è possibile stimolare determinate abilità senza indurre frustrazione, perché si sottopongono gli stimoli a percorsi alternativi di elaborazione cognitiva.
I comportamenti difficili delle persone con alterazioni cognitive possono comprendere:
- ansia, agitazione come aggressività verbale o fisica, vocalizzazione persistente;
- alterazioni dell’umore come depressione, euforia, labilità emotiva;
- alterazioni della personalità come indifferenza, apatia, disinibizione, irritabilità;
- psicosi sotto forma di deliri, misidentificazioni, o allucinazioni;
- disturbi dell’attività psicomotoria come vagabondaggio, affaccendamento afinalistico;
- sintomi neurovegetativi, quali alterazioni del ritmo sonno-veglia, dell’appetito, del comportamento sessuale.
Quale demenza
Non tutti i pazienti con demenza hanno lo stesso quadro clinico: ne esistono diverse forme, ciascuna con le sue manifestazioni patologiche a seconda delle aree cerebrali inizialmente interessate dalla malattia. In alcuni tipi di demenza i disturbi si evidenziano come un rallentamento dell’elaborazione mentale e dell’ esecuzione motoria.
Si distinguono le demenze primarie, o degenerative, da quelle secondarie, che sono la conseguenza di altri processi patologici: demenza di Alzheimer, demenza Fronto-temporale, Morbo di Parkinson con demenza, Demenza con corpi di Lewy, Paralisi sopranucleare progressiva, Degenerazione corticobasale, Malattia di Huntington, demenza Vascolare, demenze secondarie.